Roma - Nell'infuocato dibattito sull'assegnazione delle licenze WiMax e su chi debba disporne e come, si rischia di perdere di vista il punto fondamentale: chi ha diritto a quelle frequenze? Un nodo che il diritto già risolve, imponendo che sia la legge a dover definire non tanto chi può usare il bene pubblico, ma le modalità con cui chiunque possa utilizzarlo per generare capacità trasmissiva massima.
Perché? Basta fare un salto indietro. Prima di tutto è bene sapere che le emissioni delle onde elettromagnetiche che consentono la telecomunicazione costituiscono energie, pertanto beni mobili ex art. 814 c.c. Se un tempo si riteneva l'etere un bene comune, di tutti, e si doveva all'abbondanza rispetto alle esigenze dei privati, le cose sono cambiate nel 1976: la Corte Costituzionale (sentenza n. 202/1976) dichiara "costituzionalmente illegittimo" il monopolio RAI e di fatto liberalizza le trasmissioni radiofoniche e televisive su scala locale. Ciò da vita ad un proliferare di emittenti, per cui dall'abbondanza dello spettro si passa alla sua scarsità.
Tutto questo porta alla legge 223 del 1990, in cui l'etere viene dichiarato bene pubblico e, in quanto tale, sottratto all'uso generale: in altre parole è possibile utilizzarlo solo dietro autorizzazione specifica (licenza, concessione). E la competenza in materia, in base alla legge sulle comunicazioni del 2001, è ora del ministero delle Comunicazioni. Quale patrimonio indisponibile dello Stato, dunque, l'utilizzo delle frequenze per finalità di impresa non può che essere realizzato tramite licenza.
Tutto bene? Non proprio. Lo spettro oggi viene considerato scarso, e dunque ha quella che viene definita rilevanza giuridica, perché la sua scarsità può provocare conflitti tra privati (cfr. "ofemilità" - termine proposto dal sociologo economista Vilfredo Pareto). La verità, però, è che lo spettro non è scarso.
Il passaggio oramai quasi completo da trasmissioni prettamente analogiche a trasmissioni quasi interamente digitali ha ripercussioni troppo profonde per essere affrontato in modo monocorde in chiave solo giuridica, economica o tecnologica: non è un semplice avanzamento tecnologico appannaggio dei tecnologi, o un nuovo modo con cui gli economisti possono alimentare l'economia, o uno strumento per aiutare governativamente i digital-divisi, ma una vera e propria rivoluzione profondamente poliedrica!
Come ha dimostrato David P. Reed all'Autorità TLC americana (la FCC), i risultati scientifici contro-intuitivi della teoria dell'informazione in ambienti multiutente dimostrano che continuare a regolare lo spettro radio nell'ottica della scarsità è proprio ciò che ne determina la scarsità.
In altre parole: lo spettro radio non è scarso di per sé, ma è la legge stessa che confondendo la limitatezza dello spettro con la scarsità della capacità trasmissiva risultante dall'approccio tradizionale, lo rende scarso e quindi finisce per limitarne il valore.
Se si prende atto delle nuove risultanze scientifiche - fisica, teoria dell'informazione - e delle nuove possibilità tecnologiche (ndr: WiMax 74mbit a 50km con soli 30 dollari per apparato) per un uso più proficuo dello spettro radio, il tutto esaltato dalle nuove necessità popolari (il pubblico interesse) che premono sempre più con petizioni e blog per una ridefinizione delle strutture di mediazione - alias operatori - forse sarebbe opportuno un nuovo intervento legislativo in materia.
La dimostrata non-scarsità dello spettro radio deve indurre il legislatore a riconsiderarne la natura giuridica. Se la scarsità non è più un attributo di rilievo, ciò che va normato è semmai l'utilità economica della capacità trasmissiva. La norma, ripeto, dovrebbe quindi definire non tanto chi può usare il bene pubblico, ma le modalità con cui chiunque può utilizzarlo per generare capacità trasmissiva massima, che è il modo più utile in assoluto.
Non si tratta di tornare all'idea di uno spettro radio come bene comune di tutti, quanto invece disporre in modo illuminato di un bene che necessita di una norma che ne garantisca l'armonica fruibilità della collettività.
Seguendo un concetto caro al professor Stefano Rodotà, le regole, per essere seguite e rispettate armoniosamente non possono precedere la vita, ma debbono seguirla ed assecondarla. Il progresso tecnologico rappresenta una delle esternazioni primarie dell'intelletto umano, e necessita di una regolamentazione continua che ne segua gli sviluppi, ma soprattutto che non ne impedisca la fruibilità finendo per rallentare lo sviluppo della società.
Fonte: PuntoInformatico